Mindhunter- Recensione spoiler
Il 16 agosto è uscita la seconda stagione di “Mindhunter”, la serie tv firmata Netflix e creata da David Fincher in cui si parla di come sia nata l’unità di scienze comportamentali del FBI e di come le tecniche da loro sviluppate siano utili nel trovare i serial killer. In questa seconda stagione ritroviamo i protagonisti della prima: gli agenti Holden Ford e Bill Tench, la dottoressa Wendy Carr e l’agente Gregg Smith, spesso escluso dalle decisioni e relegato al ruolo di semplice aiutante. E come hanno fatto gli agenti incaricati ad avere le informazioni che posseggono? Intervistando gli assassini già in carcere, ovviamente; nella prima stagione abbiamo assistito alle interviste a Kemper, Brudos, Speck e molti altri, mentre in questa seconda stagione vediamo rappresentati due “celebrità”: Berkowitz, noto anche come il “Il figlio di Sam” e Manson.
Ebbene sì, Charles
Manson, che figura anche tra i personaggi dell’attesissimo “C’era
una
volta….. a Hollywood” di Tarantino (in uscita in Italia il 19
settembre) ed è interpretato dallo stesso attore, è uno dei killer
intervistati nella seconda stagione e l’effetto è incredibile:
l’attore mette perfettamente in scena la pazzia di “Charlie”,
l’uomo che aveva convinto un gruppo di ragazzi di buona famiglia a
massacrare diverse persone, un bravissimo manipolatore che sente la
necessità di dimostrare il suo valore (nella serie, ad esempio,
chiede all’agente Ford di regalargli i suoi occhiali da sole e
quest’ultimo lo fa, salvo poi scoprire che Manson si vantava di
averglieli rubati e per questo era stato messo in isolamento).
Interessantissima anche l’intervista a Tex Watson , membro della
“Manson family” nonché uno degli effettivi carnefici: infatti
Manson non uccise mai nessuno, si limitava, nelle poche occasioni in
cui partecipava agli omicidi, a legare le vittime; Tex ci parla di
come Manson fosse riuscito a manipolarli, a convincerli del fatto che
la morte non faceva paura e a seguirlo e venerarlo quasi come un Dio
e l’agente Ford rimane colpito da un dettaglio: ora che Tex non è
più sotto l’influenza di Manson, ha trovato rifugio nella
religione, la quale non fa altro che dargli un altro Dio da venerare
e di cui seguire gli insegnamenti.
Mentre la prima
stagione si concentrava principalmente sulle interviste ai serial
killer e alla coniazione del suddetto termine, in questa seconda
vediamo i protagonisti far uso delle conoscenze che hanno appreso nel
tentativo di catturare un altro serial killer, il “Killer di
Atlanta”, che rapiva bambini di colore nei sobborghi della città e
poi abbandonava i loro cadaveri nelle foreste o nei fiumi, un caso
decisamente complicato, in cui per la prima volta vennero usate le
tecniche di profiling (definire il profilo di un assassino in modo da
restringere il campo dei sospettati e prevedere le sue mosse future
per poterlo incastrare), così nuove da essere guardate con ribrezzo
dalle autorità, che non erano ancora in grado di riconoscerne la
validità.
Molto interessante è
la sotto trama riguardante Brian, figlio adottivo dell’agente
Tench: stava giocando con dei bambini più grandi quando
quest’ultimi, per sbaglio, hanno ucciso un bambino di appena 2 anni
e Brian propone di nascondere il cadavere nella casa che la madre sta
cercando di affittare e inoltre suggerisce ai ragazzi di mettere il
corpo del bambino su di una croce, in modo che possa poi risorgere
come Gesù. Sconvolto, il bambino sembra avere una regressione
all’infanzia ed inizia a comportarsi in modo alquanto particolare,
facendo sorgere in Bill una domanda che non porrà mai, ma la cui
forza pervade buona parte della stagione: molti serial killer hanno
pulsioni violente già da piccoli e sono attratti dalla morte,
proprio come Brian che più di una volta ha rubato al padre foto
delle scene del crimine. E se anche lui fosse un potenziale serial
killer?
Questa seconda
stagione sta riscuotendo molto successo e ciò è dovuto sì alla
bravura di David Fincher, ideatore della serie nonché regista della
maggior parte degli episodi, ma (secondo me, ovviamente) parte del
successo di questa seconda stagione è dovuto, almeno in parte, dalla
pubblicità ottenuta indirettamente dal film “C’era una volta….
A Hollywood” di Tarantino: la data di uscita della stagione era a
poche settimane di distanza dall’uscita dell’attesissimo film, in
cui compare anche Charles Manson (interpretato sempre da Damon
Harriman, lo stesso di “Mindhunter”) e questo ha sicuramente
creato interesse verso il responsabile della strage di Cielo drive e,
a mio parere, Netflix ha deciso di rimandare l’uscita della seconda
stagione a dopo il lancio nelle sale del film proprio per cavalcare
l’ondata di interesse verso il serial killer e aumentare il numero
di spettatori della serie. Ripeto, questa è una mia opinione e
potrebbe benissimo non essere così, ma io ho avuto la sensazione che
non sia un caso che la seconda stagione sia stata lanciata a così
poca distanza dall’uscita del film.
Netflix ha
confermato la terza stagione di “Mindhunter” e anche se non sono
ancora state fatte dichiarazioni ufficiali riguardo la trama, gira
voce (e sono abbastanza convinta che sarà così) che tra i serial
killer intervistati vedremo anche Ted Bundy, che fu davvero
intervistato dagli agenti durante queste ricerche. Speriamo sia così
e spero che a Bundy venga dato un po’ più di spazio all’interno
della serie di quanto ne è stato dato a Manson, magari rendendolo
protagonista di più di una puntata, com’è successo con Kemper
nella prima stagione. Staremo a vedere.
-A
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